ai risvegli di merda non ci si abitua mai

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Ogni tanto sembra che parlare di ciclisti non sia così diverso dal parlare di cronaca nera. ma non è un’impressione, è davvero la realtà nella sua faccia più cruda, spietata, ordinaria. il mondo in cui abbiamo scelto di vivere, che abbiamo costruito, è fatto così, una danza macabra sui cadaveri, un balletto stretto tra la nostra vita e la madrina della strage, che da tempo ha posato la falce in nome di un ben più efficace paraurti.

ai risvegli di merda non ci si abitua mai. meno di un mese fa era toccato a mike hall, che per quanto lo avessi incontrato nemmeno 10 volte in tutta la mia vita, finivo per considerare un amico. oggi il telefono non smette di vibrare e tocca a una di quelle persone conosciute prevalentemente attraverso uno schermo televisivo, bucato dalla loro umanità.

di Michele Scarponi si potrebbe scrivere un sacco, avendo le forze per farlo. accadrà, lo faremo tutti nei prossimi giorni, sarà un ricordo dolce come dolce era l’essenza di uno come Scarponi. facciamolo, la memoria della vita è sempre più forte di quella della tragedia, tramandiamo quella che ce n’è, ce ne sarebbe stata ancora oltretutto, col Giro alle porte.

ma poi una volta che è passata questa urgenza torniamo a prenderci l’impegno che da sempre scansiamo, noi che viviamo. L’impegno che nel mondo del ciclismo sembra non interessare a nessuno, quello che nel mondo di tutti i giorni pure finisce sommerso. togliamogliela quest’arma alla vecchia signora, rallentiamola, diradiamola, disinneschiamola. così la mattina potremo tornare a dormire oltre mezzogiorno, svegliarci in hangover senza bruschi sobbalzi che traboccano bestemmie, con la giornata libera per raccontare la vita, come ha sempre fatto Michele Scarponi in sella.

2 pensieri su “ai risvegli di merda non ci si abitua mai

  1. Gentile Cauz,

    non so se ho colto correttamente le suggestioni dell’ultimo paragrafo in merito alla necessità di lavorare sulla sicurezza dei ciclisti, ovviamente sul versante della componente che più fortemente e letalmente vi incide, cioè quella dei mezzi motorizzati e di chi li guida.
    Sono stato abbastanza sconcertato negli ultimi tempi, in Italia ma purtroppo – più sporadicamente – pure in Spagna, osservando il proliferare anche tra i ciclisti di una mentalità della sicurezza basata sull’assunzione propria di responsabilità. Anche quando questa assunzione è francamente, passami il gioco di parole, del tutto impropria.
    Per quanto possa essere fuori moda parlare di “falsa coscienza” o di “egemonia”, purtroppo i relativi concetti sono sempre attuali quando si tratta di gruppi sociali in posizione di debolezza (eventualmente ma non necessariamente minoritari) che assumono il discorso dominante.
    Resto di stucco quando leggo perfino in contesti teoricamente favorevoli come forum di ciclismo o pagine dedicate alla difesa e promozione della bici valutazioni sulla linea di: “dobbiamo mettere il casco”, “dobbiamo usare ogni apparato possibile per renderci più visibili”, “dobbiamo comportarci bene” (codice della strada e oltre!).
    Tutti nobili propositi che ciascuno può adottare o meno nel proprio privato, facendo le proprie valutazioni e assumendo inevitabilmente presunti rischi e sanzioni. Ma che si venga a propugnare tutto questo nella sfera pubblica è a dir poco controproducente.
    Purtroppo in Italia la pochezza delle riflessioni socialmente condivise sul tema dell’oppressione e della discriminazione (per genere, etnia, orientamento sessuale o qualsivoglia altra) non consente di rispondere sinteticamente a queste persone che bisogna evitare sempre e comunque il “victim blaming”.
    Proprio non capiscono tutti questi volenterosi dispensatori di consigli che il “non giustifico gli automobilisti ma…” è parente stetto del “non sono razzista ma…”, a sua volta un sinonimo riverniciato poco e male di “sono razzista”?
    Leggo sulla stampa di ciclisti esperti travolti da camion, a ripetizione, nello stesso tratto di strada, con la nota del giornalista: “portavano il casco” (in altre circostanze simili, e apriti cielo, “non portavano il casco”). Che rilevanza avrà mai il casco quando ti investe un autoarticolato lo saprà il giornalista. Anzi, no, forse non lo sa, ma senza saperlo lo sappiamo tutti: spiegare la strage con un comportamento inadeguato delle vittime, questa è l’unica rilevanza. La ragazza violentata indossava la minigonna? I jeans se li è tolti lei? Era sola? Era ubriaca? Aveva uno stile di vita appropriato?
    Dietro a tutto ciò c’è la naturale quanto ripugnante tendenza a occupare più o meno inconsciamente il posto di chi infligge piuttosto che quello di chi subisce: “anche io quando guido a volte non vedo”, “e se mi sbuca un ciclista che passa col rosso?”, “il guidatore ci rimarrà male tutta la vita” sono frasi umanamente comprensibili che però testimoniano un allineamento prospettico ed emotivo con una delle parti in causa, “la parte del boia” direbbe qualcuno, con il conseguente rifiuto (di nuovo, più o meno inconscio) di intaccare quei comportamenti, e talora quei privilegi, quelle comodità, che favoriscono chi guida e che stanno alla radice della difficoltà di migliorare la situazione sicurezza. Sì, sei “tu che guidi” che devi andare più piano, aspettare, abituarti a qualsiasi norma o procedura che migliori il tuo livello di attenzione e percezione. E sì, sei “tu che guidi” a uccidere, non il ciclista.
    Questa – lo ripeto: umanissima e naturalissima – tendenza, comune anche fra chi va in bici ma resta automobilista, e perfino fra chi non guida ma è immerso in un brodo sociale e culturale incentrato sulla priorità dell’auto, andrebbe stigmatizzata come si stigmatizza chi elucubra sui “messaggi sessuali” che avrebbe presuntamente mandato la vittima di uno stupro, o sui suoi “mancati dinieghi”. La gravità di tali posizioni non risiede anzitutto nella loro componente spesso falsificatoria (che non manca nemmeno nel caso di chi uccide ciclisti): il vero dramma sta nel fatto di cullarsi nell’empatia verso il colpevole. Il che può essere grande letteratura, grande criminologia, un esercizio filosofico, perfino, ma non può mai diventare un atteggiamento socialmente condiviso, perché se lo diventa la società non lavorerà mai collettivamente per proteggere le vittime. E l’azione collettiva è l’unica di qualche impatto quando si parla di fenomeni statisticamente macroscopici.
    Così intanto evitiamo di parlare di come sono progettate le infrastrutture (non solo quelle separate, ma anzitutto quelle di uso comune). Impara a sopravvivere alla rotonda mortale, invece che chiederti se abbia senso che ci siano rotonde mortali. Che poi a sopravvivere ci proviamo un po’ tutti, ci mancherebbe altro: ma proprio per questo motivo direi che tanti consigli da bonario zio sono di un lapalissiano che fa cadere le braccia. Anche perché, stringi stringi, finisci per scoprire che questi “consigli di sopravvivenza” nella pratica sono pochi e nemmeno specialmente efficaci, specialmente se lasciamo da parte, per i motivi di cui dirò tra poco, l’ossessione per bardarsi. Guarda bene, sii prudente, saluta l’automobilista (che poi se uno lo facesse davvero si accorgerebbe che coi riflessi del parabrezza spesso e volentieri in faccia non ci si vede). Rendi omaggio al dio della lamiera perché se no ti schiaccia: ma purtroppo in genere più ci si prostra più ti schiacciano.
    E avanti, avanti a parlare di altro, di dettagli non determinanti che, oltre alla responsabilizzazione della vittima, hanno una pura funzione ritualistica, feticista. Se io mi comporto bene, non mi capiterà niente. Se io metto le luci diurne, il casco, il giubbetto, posso stare più tranquillo.
    No.
    Fra le tante cose di cui non si parla ci sono gli le statistiche e gli studi scientifici. Un’approssimazione a ciò che potremmo chiamare “i fatti”. Quelli che dicono che nella maggior parte dei casi il ciclista muore per politrauma toracico. Quelli che dicono che più di quattro morti in bici su cinque (infarti compresi) dipende dallo scontro con un veicolo motorizzato, e il casco è inefficace nella gran parte dei casi di scontri con auto. Del tutto inefficace quando quel veicolo motorizzato (più di un terzo delle volte) è un mezzo pesante. Quelli, molto variabili da Paese a Paese, su quanto spesso esista qualche responsabilità del ciclista nell’incidente: ma finanche nei casi più estremi non si arriva nemmeno a una metà di responsabilità dei ciclisti. Una media grossolana direbbe tre volte su quattro colpa totale del mezzo motorizzato. Nel caso spagnolo i ciclisti morti stavano, nel 90% dei casi, procedendo correttamente, legalmente e tranquillamente in linea retta. I motivi principali di scontro fatale per i ciclisti sono, in Spagna, eccesso di velocità e guida distratta dell’automobilista. Ma quali luci diurne, allora. Il problema è ottico, non cognitivo. Nessuno studio ha potuto provare finora l’apparente ovvietà di una riduzione degli incidenti usando dispositivi che migliorino la visibilità passiva del ciclista. Né luci diurne, né catarifrangenti. Perfino di notte, incredibilmente, i dati restano inconcludenti. Come è possibile? Non perché tu come ciclista sia “ugualmente visibile” con un faro e una giacca catarifrangente, specie se parliamo di oscurità o semioscurità! No, il punto è che non si genera differenza nelle statistiche degli scontri perché gli scontri NON SONO CAUSATI DALLA VISIBILITÀ OTTICA. Cioè, tu puoi renderti luminoso come un albero di Natale, ma RESTI INVISIBILE, testualmente, QUANTO UNA PERSONA CHE GIRA DI NOTTE SENZA LUCI E GIUBBETTO. Questo almeno dicono gli studi che, sorprendentemente, non riescono a registrare tendenze forti legate alla visibilità ottica.
    E, purtroppo, contro l’invisibilità cognitiva, che ha ragioni culturali, non ci sono grandi risposte individuali. Tranne guidare più verso il centro della strada, riducendo certi rischi al prezzo di aumentarne altri: come a dire, quello che scrive sul telefonino e se fossi stato sul bordo “mi schivava”, diciamo pure, involontariamente, “senza accorgersene”, se sto in mezzo invece mi centra. Già il fatto che occupare il centro della carreggiata venga vissuto come “più pericoloso” la dice lunghissima sul tipo di prospettiva in cui molta gente è immersa, e sulla “inconsapevole coscienza” che in realtà tutti possiedono su dove si situi il problema: se io sto in mezzo alla strada, mi dovresti vedere, otticamente, di sicuro. Come è possibile che sia pensato come più pericoloso, se poi si isinua che esista una questione di visibilità? È possibile perché, di fatto, senza ammetterlo, tutti avvertono la sensazione di fondo che forse verresti investito comunque. Il problema non è essere visti o no, è togliersi dalla possibile traiettoria delle auto perché anche se fossi visibilissimo potrebbero non accorgersi di te.
    Se purtroppo la chiave è questa, luci e giubbetti sono meno di un pannicello caldo. E allora quel che sono in realtà è un’espiazione per la colpa di assumersi il rischio di andare in bici, un tributo che si offre a se stessi e ai propri cari per poter, in caso di incidente, difendersi dietro a un “ho fatto il possibile”.
    Andare in bici continua a essere, di fondo, un gesto sostanzialmente colpevole, per mille motivi culturali: si trasgredisce lo spazio delle auto (“la strada non è fatta per le bici”, “non pagate il bollo”) e si esibisce un tabù, il prezzo di sangue, salute, spesa pubblica, tempo perso che ogni giorno viene pagato da tutti sull’altare della religione del motore. La colpa è esibire quel tabù.
    Siccome, però, punire quella colpa strettamente come tale vorrebbe dire inevitabilmente mantenere la vista sul tabù, la carica di colpevolezza viene spostata su altro: il ciclista viene fustigato, e si autofustiga, perché non rispetta il codice, perché non si protegge, perché non adempie ai piccoli rituali inutili o alle prescrizioni assurde. La sua morte viene ricondotta a queste infrazioni feticcio, alla faccia di una realtà fattuale che asserisce il contrario, cioè che il casco non sposta la mortalità (al massimo la sposta in peggio, come incidenza, riducendo la safety in numbers, ma questa è un’altra storia), che i ciclisti morti non infrangevano nessuna norma, che essere otticamente visibili o non non ha un effetto rilevante sul numero di scontri con veicoli.
    Come è possibile che il feticcio resista ai fatti? Come sempre, in virtù delle stesse forze che lo hanno generato. La necessità di giustificare l’oppressione, l’allineamento con la mentalità dominante, la pressione delle forze economiche.
    Non importa perché i ciclisti, davvero muoiano sulle strade – e che il perché non importi, tra l’altro, impedisce di prendere misure efficaci. Importa che i ciclisti siano visti come essenzialmente responsabili della propria disgrazia.
    E tutto questo di fronte a un caso come quello di Michele, di certo non un incapace alla guida, vittima incolpevole di un’infrazione altrui, vestito di colori chiari e con quel punto sgargiante kitsch che accomunava la divisa Astana e Frankie, e col casco, certo. L’assurdità di autoresponsabilizzarsi di fronte a un caso così fa gelare il sangue e testimonia la profondità delle strutture culturali che andrebbero sradicate prima di veder cambiare di una virgola la situazione italiana.
    Scusa per la lunghezza e per lo sfogo, ma leggere nelle pagine italiane ciclisti motivati ed esperti che contribuiscono pubblicamente a questa rovina culturale mi ha indotto e cercare di condividere queste riflessioni con qualcuno che, almeno da quanto ho colto qui e là, ha della sicurezza una concezione più matura.

    • ERRATA CORRIGE: “Il problema è cognitivo, non ottico”. Già che ci sono, ho visto una recente campagna inglese sul tema della sicurezza stradale molto carina, con un video in stile Cluedo/Poirot che dimostra la differenza tra visione ottica e visione cognitiva. Consigliatissima se la trovi.

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