ieri il ciclismo ha salutato un suo gigante. Magari non il primo nome che veniva a galla in quelle contorte discussioni all’indietro nel tempo, ma una di quelle figure che diffondono fascino e ammirazione, oggi ce ne rendiamo conto con più crudeltà. Per me però Patrick Sercu non era un ciclista, non al principio: era l’uomo con la pistola. Detto così, in tempi di nuove legislazioni da videogame, sembra un’affermazione pericoloso. Ma poco oltre la metà degli anni ’90, quando ancora frequentavo le superiori coi loro pomeriggi vuoti e annoiati, Patrick Sercu era colui che aveva riunito insieme un manipolo di fenomeni (non come lui, ma tant’è) e li aveva fatti correre per sei pomeriggi. Una sei giorni che Milano non vedeva da oltre un decennio (questo io non lo sapevo) e che ritornava nella desolazione di Assago, dove sarebbe durata pochissimo (questo nessuno lo sapeva). Patrick Sercu sparava e scattavano Martinello e Villa, Collinelli e Freuler, Risi e Betschart, Kappes, Ludwig, Minali, i vecchi Bincoletto e Danny Clark e i giovani Vandenbroucke e Llaneras… persino Gianni Bugno, alla sua ultima uscita a pedali. Patrick Sercu ai miei occhi era sopratutto il ritrovato direttore di quella pista (es)temporanea, era quello con la pistola e sparava, a salve.
Solo anni dopo ho scoperto chi fosse davvero Patrick Sercu: un gigante. Ed è ciò che emerge da chi lo ricorda da ieri, quando è morto. L’ho scoperto e l’ho studiato negli anni, Sercu. Fino ad arrivare a scrivere una sola volta di lui, per il “il Centogiro”. Un ricordo di quella volta in cui Moser si ritrovò in preda alla diarrea in corsa, costretto a pulirsi con un cappellino che il vento avrebbe portato addosso a Sercu, velocista costretto in salita alla fuga – per lavarsi. Un’immagine così, che stona un po’ con il momento del ricordo. Ma d’altronde il ciclismo è anche questo, è un tempo lungo che contiene la vita, con tutte le sue funzioni. E la vita, ce ne accorgiamo bene quando scompare un gigante, a volte è una merda.