I danni collaterali di Milano

Questo è una specie di conteggio, che non so perché ma ho incominciato a fare all’inizio dell’anno. Forse la ragione semplice è che ce ne si accorgeva già, di come stava cambiando la città di Milano, di come stavano cambiando le sue strade, e di dove saremmo arrivati. In fondo è un cambiamento che è cominciato quasi 20 anni fa, uno scarto fatto con coscienza, scollando la città dalle persone, separandone i destini, stravolgendo le priorità. È un cambiamento che ha cominciato da anni a mostrare i suoi frutti avvelenati, oggi è solo più florida la stagione del mesto raccolto.

Lo scorso primo giugno è uscito un articolo sul manifesto, firmato da Luca Martinelli, intitolato La Spoon River dei ciclisti ammazzati. È un’analogia che ricorre spesso quella con Spoon River, e non stupisce, visto il contesto. A partire da quell’articolo ho ripreso il conteggio che mi ero segnato, l’ho completato con le informazioni rese pubbliche (compresi i possibili errori, di cui mi scuso) e l’ho riadattato, al territorio milanese e a strade che non uccidono soltanto i ciclisti.

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Giulia Garavaglia si trovava su un ponte sopra il Ticino, a Turbigo, il 10 gennaio, quando è stata investita e uccisa da un’automobilista. Aveva 57 anni e ogni sera attraversava il ponte di ferro per tornare a casa.

Hassan Hashem aveva 29 anni e lavorava per un’impresa di pulizie. È stato ucciso il 12 gennaio a pochi passi da casa sua, a Cinisello Balsamo, nei pressi dell’ingresso del Parco Nord. Stava attraversando la strada quando è stato travolto da un ragazzo alla guida di un’automobile. Come si dice in questi casi: si ipotizza una distrazione.

Veronica Francesca d’Incà aveva 38 anni. Il primo febbraio è morta all’angolo tra viale Brianza e Piazzale Loreto, a due passi da casa, investita da un camion di una ditta di traslochi guidato da un 24enne. Lascia un compagno e una bimba di 2 anni.

Non è stato reso pubblico il nome dell’uomo travolto la mattina del 10 febbraio nel centro di Cernusco sul Naviglio, mentre attraversava la strada. Aveva 85 anni, e si trovava in città per visitare le due figlie. Era appena uscito per fare la spesa.

Aveva 95 anni Angela Biscaglia, quando è stata schiacciata da un autocarro in viale Enrico Fermi, il 10 febbraio. Era uscita di casa per la quotidiana passeggiata in quartiere, reggendosi su un bastone. Come lei, anche il camion con cui è stata uccisa procedeva sul marciapiede.

Federico Cafarella, 25 anni, è stato ammazzato il 7 marzo da un autobus della linea 53. Stava attraversando sulle strisce, a piedi, all’incrocio tra via Padova e via Cesare Arici. Originario di Antella (frazione di Firenze), dove faceva l’arbitro nei tornei di calcio, si era trasferito da pochissimo a Milano.

Juan Carlos Quinga Guevara, 33 anni, è stato ucciso alle tre di notte del 10 marzo all’angolo tra via Beldiletto e viale Famagosta. Stava andando a lavorare come magazziniere in un supermercato, era in monopattino quando lo ha travolto un’auto guidata da un 25enne.

Un altro ciclista senza nome, un 19enne di origini bengalesi, è stato investito nelle prime ore del mattino del 6 aprile 2023, mentre usciva in bicicletta dal cancello del centro di concentramento per migranti di via Corelli. Avrebbe voluto attraversare per immettersi sulla ciclabile, ma è stato ucciso da una donna alla guida di una Smart.

Cristina Scozia, 39 anni, è morta in pieno centro, davanti alla Biblioteca Sormani, schiacciata da una betoniera, il 20 aprile 2023. Abitava nel quartiere Crescenzago e si occupava di medicina olistica, lascia una figlia di 6 anni. (*)

Non si conosce il nome della donna di 83 anni, investita la mattina del 24 aprile in via Cavallotti a Cologno Monzese. A ucciderla è stata una donna di 38 anni, alla guida di un’auto di grosse dimensioni, che ha dichiarato di essere stata “accecata dal sole”.

Li Tianjiao, cuoco 55enne in un ristorante cinese, è stato agganciato da un autocarro lungo via Comasina, e quindi trascinato per circa 300 metri. È morto poco dopo in ospedale, l’8 maggio. Ha lasciato una compagna e un figlio.

Renato Borsotti, 78 anni, è stato investito e ucciso il 15 maggio nella cava del Tecchione, in via Lario, a San Giuliano Milanese, suo paese natale. Ad ammazzarlo un 25enne alla guida di un furgone Iveco Daily, appena rubato.

Lo stesso giorno, poche ore prima, era stata una donna settantaduenne a morire in via Milano a Vanzago. Era uscita a portare fuori il cane quando è stata travolta da un’automobilista di 51 anni. Stava attraversando sulle strisce pedonali, ma le strisce erano state cancellate per riasfaltare la strada.

Giovanni Valsecchi è morto il 17 giugno, sei giorni dopo essere stato investito da un automobilista di 29 anni mentre attraversava sulle strisce pedonali davanti all’ospedale di Melzo. Aveva 82 anni. Era andato in pensione dopo aver gestito una macelleria per 25 anni. Da pochi giorni era diventato bisnonno.

Anche Alfina d’Amato è stata ammazzata da una betoniera, investita e trascinata per 50 metri, la mattina del 22 giugno, in piazza Durante. Aveva sessant’anni, e stava andando a lavorare in bicicletta, come d’abitudine. Lascia un compagno e un figlio di 14 anni.

Luciano Avigliano aveva 73 anni. Nell’afoso pomeriggio del 16 luglio stava attraversando viale Fulvio Testi, a pochi passi da casa sua, quando un uomo su una motocicletta nera lo ha centrato in pieno, uccidendolo sul colpo. Il suo corpo è stato scagliato a 20 metri di distanza.

Serafino Valentino Colia non aveva ancora 16 anni, era un appassionato giocatore di pallacanestro. È stato ammazzato mentre rientrava a casa insieme a un’amica, la sera del 17 luglio, in viale Kennedy, a Garbagnate. Stavano attraversando la strada in bicicletta quando un uomo alla guida di un furgone bianco li ha travolti. Un’amica che era con lui fino a pochi minuti prima ha detto: «Siamo corsi là immaginando fosse un incidente: in quel tratto di strada avvengono quasi ogni giorno».

Karl Nasr è finito contro un semaforo, letteralmente. Stava aspettando per attraversare la strada, a piedi, quando una carambola tra due auto lo ha schiacciato contro il palo, la mattina del 2 agosto all’incrocio tra viale Umbria e via Colletta. Nato a Beirut nel 2015, è morto sotto gli occhi dei genitori. L’auto con cui è stato ucciso, un potente mezzo da 100mila euro, era un regalo di compleanno di un imprenditore al figlio 27enne. Sarebbe stata consegnata pochi minuti dopo.

Nicola Zezza aveva 89 anni quando, la mattina del 28 agosto, stava attraversando una strada a poche centinaia di metri dal Duomo di Milano. Con buona pace di ogni limitazione al traffico, è stato centrato in pieno da un tassista.

Francesca Quaglia, 28 anni, era ferma al semaforo in fondo a viale Caldara, a Milano, la mattina del 29 agosto. Allo scattare del verde, è stata agganciata e uccisa da un camionista che guidava un mezzo per movimento terra. Nata a Bologna, si era trasferita a Milano da tempo, dopo aver vissuto in Svezia.

Stava attraversando la strada anche Giordano Gallotta, il 5 settembre in via Vittorio Veneto a Melegnano. Non è riuscito ad arrivare in fondo, però, perché è stato ammazzato da una ragazza alla guida di un motorino. Aveva 85 anni.

Non è stato reso note il nome della donna di 77 anni che l’8 settembre è stata travolta da un’auto, rimbalzata dopo una collisione all’incrocio tra via Inganni e via Lorenteggio. Era ferma in uno spartitraffico insieme al marito, aspettando che scattasse il verde per attraversare.

Vassil Facchetti era andato a ballare con gli amici, come tanti altri sabati sera. È all’uscita dall’Alcatraz, in viale Jenner, che un automobilista lo ha travolto mentre attraversava la strada, nella notte tra il 16 e il 17 settembre. Aveva 28 anni, era nato in Bulgaria e viveva sin dall’infanzia a Settimo Milanese.

24 ore più tardi è toccato ad Antonia Pansini, detta Nina, schiacciata e uccisa da un camion della raccolta rifiuti in via Trasimeno, a 300 metri da casa. Anche lei stava attraversando la strada, sulle strisce pedonali, di ritorno da una visita medica. 75enne, era nata a Molfetta e si era trasferita a Milano 30 anni fa. Lascia due figlie e due nipoti.

Anche Maria Vincenza Simone, 68 anni, stava attraversando sulle strisce pedonali la mattina del 22 settembre, quando è stata investita e ammazzata da un automobilista sulla strada provinciale 30, a Vermezzo con Zelo. Andava a passo svelto per non perdere l’autobus in arrivo, ma non ha mai raggiunto la fermata.

Era invece appena sceso dalla 90, in piazzale Nigra, El Ghazouani Zeroual El Idrissi, centrato in pieno mentre attraversava la strada da un motociclista su un mezzo di grossa cilindrata, talmente massiccio da rendere letale anche un impatto a bassa velocità. Originario del Marocco e residente a Milano, aveva 61 anni.

Tommaso Pignataro aveva raggiunto la pensione da qualche anno, dopo aver lavorato come medico gastroenterologo dal 1967, l’ultimo incarico all’ospedale Fatebenefratelli. La mattina del 2 ottobre è stato investito da un uomo alla guida di un furgone mentre attraversava sulle strisce pedonali in via Palmanova. Aveva 82 anni.

Il quarantottenne Fabio Buffo stava rientrando a casa, la mattina dell’8 ottobre, dopo una passeggiata con il cane Poldo. Non ci è arrivato, perché lo ha ammazzato un autobus della linea 175, sulle strisce pedonali all’angolo tra via Bellosio e viale Forlanini, a cento metri da casa, lasciando una moglie e due figli, di 16 e 20 anni. L’autista del bus stava cercando di aggirare un’auto ferma in mezzo alla strada.

Si trovava a qualche centinaio di metri da casa anche Donato Modugno, il 12 ottobre, quando è stato investito mentre attraversava la strada, all’incrocio tra piazza Gobetti e via Monte Nevoso. Dopo averlo travolto, l’automobilista ha centrato altri cinque veicoli. Era originario di Lavello, in provincia di Potenza, e aveva da poco compiuto 83 anni.

Di un anno più anziana era Angela Fasoli, detta Lina, uccisa la sera del 23 ottobre in via Fratelli Bronzetti. Originaria di Sala Comacina, sul Lago di Como, da anni ormai abitava nella stessa via in cui è morta. Come in molti altri casi, la donna stava attraversando la strada quando è stata ammazzata da un ragazzo alla guida di uno scooter.

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Domani è il 31 dicembre, il 365° e ultimo giorno del 2023.

Se si risale questa collina di nomi e vite si contano 30 lapidi, ghost bikes, mazzi di fiori, quello che volete.
Significa che sulle strade della metropoli milanese la violenza automobilistica uccide un pedone (o una ciclista, un monopattinista) ogni 12 giorni e quattro ore circa.

Se fossimo in guerra, li chiamerebbero danni collaterali. Invece sono vite, sono persone. E, se non fosse che i nostri giorni sono fin troppo affollati di bombe e cannoni, forse dovremmo ammettere che anche a Milano siamo davvero in guerra.

(* PS- In merito a questo incidente, negli scorsi giorni è stata aperta un’indagine a carico di un assessore e due dirigenti del Comune. Dai tribunali non esce mai nulla di buono, ma i processi giudiziari spesso aiutano a mettere a fuoco i processi sociali. Così quest’indagine che appare bislacca, con i riferimenti a una corsia ciclabile benché la collisine sia avvenuta a un normalissimo incrocio, lascia intendere che il problema non sono i morti, ma la riappropriazione delle strade).

“Il migliore” e il vuoto pantaniano

Sono andato a vedere Il migliore, il nuovo documentario su Marco Pantani. In genere non vado a vedere questi film, ma stavolta me l’ha consigliato Gino e quindi c’era da fidarsi. Davvero.

Al centro del film, a dire il vero, c’è il vuoto. Il migliore è un film sul vuoto. Sono vuote le spiagge e le strade di Cesenatico, le cucine dei ristoranti e delle piadinerie, i boschi delle colline romagnole spazzati dal vento.

È vuota la casa di Marco e sono vuote anche le stanze degli amici a cui questo film affida completamente la parola. Un vuoto che in quelle stanze è riempito da foto di Pantani, prime pagine, cartoline, maglie firmate, articoli di giornale. Ma resta ingombrante, lo si percepisce dai primissimi piani delle persone che con Pantani sono cresciute, che l’hanno amato e perso.

Tanto che il vuoto più forte arriva nel finale, affidato a brandelli di una delle ultime interviste di Pantani, in cui Marco rimane zitto, senza parole, come se avvertisse e cercasse di comunicare anche lui quel vuoto che già c’era, e che infine ha lasciato.

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Prima del lungo inverno chiamato estate

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La tradizione dei mesi freddi è la stessa dei mesi caldi: stare sul divano (o a bordo strada, o in velodromo) con una birra in mano a godere di alcuni personaggi che vanno in bicicletta. Per aiutare il fluire dell’inverno ho tirato un lunghissimo filo su twitter, aperto il 14 settembre 2019 e chiuso oggi. Gli ultimi tweet sono una sintesi, un ricordo, un orgasmo differito, della magnifica stagione che fu. Stanno tutti lì; ma come omaggio postumo a Larry Tesler, inventore del copia/incolla recentemente scomparso, stanno pure qui sotto.

Prima dell’inizio della Coppa del Mondo (e in cima a questo lunghissimo filo) avevo fatto una domanda. Ero convinto di sapere la risposta, ovvero che sarebbe stata un’annata incerta, con protagonisti discontinui, in cui ci saremmo divertiti meno del solito. Mi sbagliavo. In chiusura di questo filo, ecco perché.

Perché la 2019/2020 è stata una grandiosa stagione di ciclocross (e già mi manca).

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e così i’ Brocci è andato a parlare con Lappartient

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e così i’ Brocci è andato a parlare con Lappartient. faccio fatica a pensare a due figure così diverse, antitetiche quasi, nel ciclismo di oggi come Brocci e Lappartient. Eppure Brocci ha da sempre questa visione secondo cui le (buone) idee si fanno circolare, e quindi si va a parlare con tutti, pure con Lappartient. Evidentemente anche Lappa, per quanto non sembri, condivide questa visione. Che due come Lappartient e Brocci si parlino è una buona notizia per tutte e tutti.

e così i’ Brocci è andato a parlare con Lappartient e gli ha fatto delle proposte, o quantomeno ha condiviso con lui delle idee. Queste:

Corse su strade sconosciute, non più le solite salite classiche che conoscono tutti. Del resto anche le grandi classiche stanno cercando nuovi percorsi. Poi distanze più lunghe, oltre i 300 km, con partenze magari in notturna e bici senza rapporti da rampichino, così da mostrare chi davvero chi fa la differenza in salita. Banditi computer e radioline, rifornimenti solo a terra e divieto per i corridori di scendere sotto il 6% di grasso corporeo: che la smettano di avere quell’aspetto malsano, fanno quasi paura.

Certo, gli ha proposto un circuito alternativo al World Tour, perché le idee hanno bisogno di farsi spazio, non irrompono come un’esplosione. I circuiti alternativi nel ciclismo non funzionano, in questo ciclismo almeno non funzionano. In alcuni casi è anche un bene che non funzionino. In altri no: il ciclismo avrebbe bisogno di un circuito alternativo, ma l’alternativa dovrebbe essere alla stessa UCI. è qualcosa che tanti già praticano, altri pensano, anche i soggetti più ingombranti. è qualcosa che avverrà, inevitabilmente. Perché il ciclismo ha bisogno di rinnovarsi, l’alternativa è svanire lentamente.

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2019%

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[il post che segue è la copia di un thread su Twitter. questo blog è ancora in ibernazione, ma magari risorgerà nel mondo dei copia/incolla]

 

Ci informa Year Progress che abbiamo già superato il 99% dell’anno 2019. Questo è un thread infinito per fissare il ricordo delle cose migliori del ciclismo su strada in quest’anno. Prima che la memoria sia filtrata dal fegato.

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Patrick Sercu, un gigante

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ieri il ciclismo ha salutato un suo gigante. Magari non il primo nome che veniva a galla in quelle contorte discussioni all’indietro nel tempo, ma una di quelle figure che diffondono fascino e ammirazione, oggi ce ne rendiamo conto con più crudeltà. Per me però Patrick Sercu non era un ciclista, non al principio: era l’uomo con la pistola. Detto così, in tempi di nuove legislazioni da videogame, sembra un’affermazione pericoloso. Ma poco oltre la metà degli anni ’90, quando ancora frequentavo le superiori coi loro pomeriggi vuoti e annoiati, Patrick Sercu era colui che aveva riunito insieme un manipolo di fenomeni (non come lui, ma tant’è) e li aveva fatti correre per sei pomeriggi. Una sei giorni che Milano non vedeva da oltre un decennio (questo io non lo sapevo) e che ritornava nella desolazione di Assago, dove sarebbe durata pochissimo (questo nessuno lo sapeva). Patrick Sercu sparava e scattavano Martinello e Villa, Collinelli e Freuler, Risi e Betschart, Kappes, Ludwig, Minali, i vecchi Bincoletto e Danny Clark e i giovani Vandenbroucke e Llaneras… persino Gianni Bugno, alla sua ultima uscita a pedali. Patrick Sercu ai miei occhi era sopratutto il ritrovato direttore di quella pista (es)temporanea, era quello con la pistola e sparava, a salve.

Solo anni dopo ho scoperto chi fosse davvero Patrick Sercu: un gigante. Ed è ciò che emerge da chi lo ricorda da ieri, quando è morto. L’ho scoperto e l’ho studiato negli anni, Sercu. Fino ad arrivare a scrivere una sola volta di lui, per il “il Centogiro”. Un ricordo di quella volta in cui Moser si ritrovò in preda alla diarrea in corsa, costretto a pulirsi con un cappellino che il vento avrebbe portato addosso a Sercu, velocista costretto in salita alla fuga – per lavarsi. Un’immagine così, che stona un po’ con il momento del ricordo. Ma d’altronde il ciclismo è anche questo, è un tempo lungo che contiene la vita, con tutte le sue funzioni. E la vita, ce ne accorgiamo bene quando scompare un gigante, a volte è una merda.